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Pensioni, come volevasi dimostrare: i conti del presidente Inps non lontani dalle proiezioni dell’Ufficio Studi Assimpresa

Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ieri si è prodotto in un pregevole assist per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, dichiarando in un’intervista al Sole 24 Ore che bloccare gli adeguamenti dei requisiti di pensionamento a 67 anni dal 2021 avrebbe una ricaduta di «141 miliardi di spesa in più da qui al 2035».

Questo maggiore esborso sarebbe destinato «quasi interamente a tradursi in aumento del debito pensionistico implicito, dato che l’uscita prima del previsto non verrebbe compensata, se non in minima parte, da riduzioni dell’importo delle pensioni».

Secondo Boeri, questo tipo di intervento avrebbe ricadute negative anche sul merito di credito dell’Italia in quanto «senza quantitative easing della Bce sarebbe legittimo aspettarsi effetti rilevanti sul costo del debito pubblico». Ecco perché il presidente dell’Inps ha sottolineato quanto sia potenzialmente pericoloso bloccare l’innalzamento dell’età pensionabile «senza toccare i coefficienti di trasformazione» (i parametri di conversione tra salario e assegno pensionistico) in quanto «il flusso attuale vede in uscita pensioni miste, con una quota prevalente di calcolo ancora retributivo». Insomma, Boeri sembra far passare un messaggio: o si segue la linea del Tesoro che questi risparmi li ha già cifrati mettendoli in cassaforte per le prossime manovre oppure, se proprio si vuole ritoccare il sistema, bisogna pensare a pensioni per le quali la parte contributiva abbia un peso maggiore rispetto a quello attuale. In pratica, facendo dimagrire gli assegni futuri e, potendo, anche quelli attuali.

Il ragionamento si basa sul fatto che nel 2017 la spesa per previdenza e assistenza è stimata al 20,2% del Pil. Se si aggiunge quella sanitaria, si raggiunge il 23%: si tratta di risorse destinate alla popolazione anziana, mentre «l’Istat ci ha ricordato che abbiamo 2,5 milioni di giovani con meno di 35 anni in povertà».

Le sottolineature di Boeri hanno indispettito i presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato nonché ex ministri, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, secondo i quali le teorie di Boeri poggiano su «un presupposto inesistente: non abbiamo proposto la cancellazione del collegamento tra età di pensione ed aspettativa di vita ma solo la sua rimodulazione temporale per alleggerire l’allungamento dell’età lavorativa, di circa sei anni». I due esponenti, la cui proposta ha ricevuto apprezzamenti bipartisan soprattutto da parte del sindacato, hanno già ricevuto un anonimo caveat dal governo la scorsa settimana: dal 2019 (anno in cui l’età pensionabile salirà a 67 anni) bisognerebbe stanziare quanto meno 1,2 miliardi in più all’anno. «Ci confronteremo, numeri alla mano, con il governo nelle sedi parlamentari», hanno ribadito ieri Damiano e Sacconi.

Boeri ha invece ottenuto l’appoggio dell’esperto di materia previdenziale, Giuliano Cazzola, che ha definito i suoi colleghi «irresponsabili» perché «se si guarda, infatti, all’età effettiva di pensionamento (cioè a quando le persone vanno davvero in quiescenza) si scopre che in Italia è più bassa (62 anni) che in Germania (64 anni) e della media europea: ciò per la netta prevalenza del numero dei trattamenti anticipati».

La sensazione è che la battaglia, però, sia appena iniziata.

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