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UNA VOCE PER LA PICCOLA IMPRENDITORIA

Una voce per la piccola imprenditoria: la rappresentanza di una comunità di destino

ASSIMPRESA UN SALTO DI QUALITÀ

PMI?

Di cosa stiamo parlando? Tutti si riempiono la bocca delle PMI.

PMI è acronimo che non vuole più dire nulla se non ci facciamo largo tra i numeri e non riusciamo ad andare oltre i numeri.

Il prototipo della società del rischio.

Nonostante non esistano barriere all’ingresso e la concorrenza sia all’ordine del giorno, il popolo dell’Iva non ha mai suscitato l’interesse dei mercatisti più intransigenti, che non l’hanno considerato terreno degno di studio.

Certo se si guarda alla distribuzione sul territorio le incongruenze saltano fuori.

In testa c’è la Lombardia, che da sola ospita quasi il 20% del popolo dell’Iva, il Veneto ha un numero inferiore sia alla Campania, sia al Lazio.

Un vero check up del fenomeno Iva dovrebbe essere condotto localmente incrociando i dati delle aperture, il gettito e la produzione del territorio; in questo modo si circoscriverebbero le aree grigie e si ripristinerebbe «lo spirito originario, quello di favorire la vitalità imprenditoriale».

Torna il “popolo delle partite Iva”.

Tempo fa avevamo abbozzato il ritratto della base sociale su cui dovrebbe appoggiare un ipotetico partito di centro: questo “ceto medio che vuole cambiare il Paese” sarebbe formato dalla piccola e media impresa, da artigiani e commercianti, a cui occorre aggiungere i professionisti ordinistici; il totale è degno di numerica considerazione, oltre 6 milioni di soggetti economici. Si sta creando, di nuovo, un più generale interesse intorno a queste tesi.

AGGREGATI

DATI ASSOLUTI

Imprenditori

743 mila

Liberi professionisti

1milione 640mila

Lavoratori in proprio

3 milioni 342 mila

Soci di cooperativa di produzione

431 mila

Coadiuvanti

1milione 103 mila

Totale occupati indipendenti

7 milioni 259 mila

Dirigenti

474 mila

Direttivi-Quadro

1 milione 276 mila

Impiegati o Intermedi

6 milioni 715 mila

Operai, Subalterni ed Assimilati

7 milioni 518 mila

Apprendisti

238 mila

Lavoranti a domicilio per conto imprese

106

Totale occupati dipendenti

16 milioni 327 mila

TOTALE OCCUPATI

23 milioni 586 mila

 

Tabella1. Anno 2011: Occupati in complesso per posizione nella professione. Fonte Istat

Mischiando diversi e, talvolta, antagonistici metodi d’analisi, potremmo chiamare “ceto medio” l’insieme di “medi e piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti di vecchio e nuovo tipo, più i loro dipendenti.”

Questa componente della società ha un ruolo dominante in termini di reddito prodotto (e consumato)”, e sarebbe, quindi, il segmento più dinamico del corpo sociale, quello più scolarizzato, più acculturato, più aperto al cambiamento e al mercato”; rappresenterebbe “il motore della modernizzazione, il segmento sociale trainante.”

Ad esso si contrapporrebbe “il blocco statalista”, che “contiene lo Stato, la grande industria, il sindacato, le relative burocrazie funzionali ed intellettuali.”

I due blocchi non sono, però, ancora equipollenti.

Nel primo manca la coesione e la consapevolezza. Soprattutto laddove, come vedremo, una sua componente ha aspirazioni di appartenenza al campo antagonista.

Esiste un’antinomia tra l’“enorme dimensione sociale” del ceto medio, la “funzione economica” che svolge e la sua “debolezza politica”.

Infatti, mentre “il lavoro dipendente dispone di un apparato di rappresentanza forte e attrezzato, quello indipendente “non dispone di alcun apparato di tutela”.

La composizione del CNEL ormai in via di estinzione ne è lo specchio.

Sarebbe, quindi, l’ora di dotare “quel popolo, ormai maggioritario nel Paese”, di “una vera e propria coscienza di classe”, “di una vera e propria consapevolezza di ruolo sociale”.

Se la teoria corrispondesse alla realtà sociale, l’azione politica derivata sarebbe, se non condivisibile, perlomeno giustificata.

Ma questo riscontro ancora non c’è, a partire dalla consistenza stessa del “popolo delle partite Iva”.

In Italia, gli imprenditori, i liberi professionisti, i lavoratori autonomi, cioè coloro per i quali è prevista l’apertura della “partita Iva”, fanno salire i numeri esposti.

Ora, il fatto che le “partite Iva” siano, invece, 8 milioni, e che il loro numero corrisponda a quello della “Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia messe insieme!”, invece di accendere entusiasmi, dovrebbe far riflettere e far sospettare un qualche probabile inganno.

Di certo gran parte di questo presunto “lavoro autonomo” tanto “autonomo” non è. (forse vi sono lavoratori costretti a dirsi “autonomi”, cosicché il loro datore di lavoro possa evadere i contributi…)

Negli anni la proporzione è drasticamente cambiata e ad oggi la prima riga rappresenta oltre il 30% del totale occupati.

Attualmente, non esiste tuttavia un dato statistico o amministrativo certo sul numero delle partite Iva individuali in Italia. È disponibile invece un dato relativo al numero dei professionisti, riconosciuti (iscritti a un albo o a un ordine professionale).

Il numero di questi ultimi era nel 2010 pari a circa 1.670.000 con un aumento rispetto all’anno precedente del 1,6 per cento.

Questo perchè è sempre crescente il gruppo di soggetti, che svolge professioni attualmente non codificate e presta la propria opera con obbligazione di risultato con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione – decidendo tempi, modalità e mezzi – che è obbligato ad aprire la partita IVA.

Una buona approssimazione alla numerosità del fenomeno è offerta dal numero dei soggetti che, proprio in quanto non iscritti ad alcun ordine professionale, sono tenuti al versamento presso il fondo speciale INPS per i parasubordinati in qualità di “professionisti”.

Ebbene al 31 dicembre del 2014 erano iscritti oltre 500.000 professionisti non iscritti ad Albi a cui vanno aggiunti 100.000 “collaboratori professionisti”, ossia professionisti che contemporaneamente nell’anno hanno contratti di collaborazione e rapporti professionali con partita Iva.

Complessivamente, secondo questa fonte, quest’area di lavoro sarebbe composta da poco più di 600 mila persone, con un tasso di crescita del 10% circa.

Questa ricerca a carattere descrittivo-esplorativo cerca di offrire qualche elemento empirico per capire proprio le condizioni effettive di lavoro dei “professionisti” con partita Iva, i problemi che esprimono e le loro richieste, ma anche monitorare gli effetti prodotti dalla legge 30 su questo segmento del lavoro italiano.

L’indagine ha messo a fuoco in particolare il gruppo dei professionisti non regolamentati, quelli non iscritti ad albi o ordini professionali che il CNEL definisce “prestatori d’opera, che stabiliscono un rapporto di lavoro sulla base del raggiungimento di un obiettivo richiesto dal committente con il lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione”.

E’ soprattutto questo mondo delle cosiddette “nuove professioni” che si trova più esposto a un utilizzo elusivo della condizione di “professionista”, ma anche quello di cui meno conosciuti sono i profili, i problemi, le aspettative.

I numeri esposti e le considerazioni ci portano lontano.

All’interno di quella massa magmatica ci sono ampie differenziazioni di motivazioni, di cultura, di aspirazioni, di posizioni sociali e di reddito.

Sicuramente quasi quattro milioni di piccole imprese non hanno rappresentanza.

Non hanno riferimenti; non hanno voce e non hanno protezione.

Il problema è il mantenimento dello spirito imprenditoriale, dell’impresa e della sua crescita.

Che cosa possiamo e intendiamo dare?

Rappresentanza; interventi e assistenza piena sulla crescita professionale; azione sintonica con la PA sulle infrastrutture necessarie allo sviluppo di questa imprenditoria: quindi, finanza, credito, innovazione, tutele in genere a partire da rapporti più semplici con la P.A..

L’art. 1 della nostra Costituzione recita:

La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro …”

Di chi?

Se non c’è qualcuno che ci mette l’anima, la passione, il tempo sottratto alla famiglia, allo sport ai salotti televisivi e alla chiacchiere e il proprio patrimonio piccolo o grande che sia il lavoro chi lo da?

Chi lo da a quelli che in televisione ci vanno per dire che sono stufi di fare i precari a 40 anni?

Ci deve pensare ancora lo Stato?

Con che risorse?

Provate a indovinare.

Qualcuno:

  • ricorda la dimensione del debito pubblico?

  • ricorda come funziona la P.A. in genere, la Giustizia in particolare?

  • ha mai avuto rapporti con L’Agenzia delle Entrate, con gli Uffici Catastali;

  • ha mai aperto un’impresa?

  • ha mai fatto i conti per bene per dire quanto in percentuale lascia sul piatto dei tributi per imposte, dirette, indirette, bolli, per le più svariate ragioni di indeducibilità?

Ho tralasciato le tasse, le accise e gli oneri professionali per adempimenti incomprensibili e spesso inutili e il tempo spesso male speso a ragione di questi adempimenti.

Absit iniuria verbis.

Possiamo allora dire che c’è una linea di demarcazione tra chi lo stipendio lo riceve e chi se lo fa e che, questi ultimi meritano più attenzione e rispetto.

Dunque, che fare?

Approvare, per esempio, la proposta di uno statuto delle imprese da aggiungere al pacchetto delle semplificazioni collegato alla Finanziaria.

Basta con la giungla di autorizzazioni e permessi.

E ancora: perché non pensare a un’unica comunicazione (telematica) sull’avvio delle attività, fatta solo alle Camere di Commercio, e all’autocertificazione privata sostitutiva?

No a tanti controlli fatti da troppi enti. Una sola verifica può bastare.

Sul piano fiscale, la riduzione dell’Irap dovrebbe partire da una franchigia che favorisca i piccoli sia con riferimento al coefficiente di occupazione, sia dalla totale deducibilità degli interessi passivi.

È da rafforzare la struttura dei Confidi, migliorando le garanzie per le imprese minori, ma soprattutto va eliminato il sovrapprezzo fiscale dell’indebitamento.

Sono solo alcune delle misure minime che potrebbero trovare un appoggio trasversale.

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