Risparmio

Quando la banca “tassa” il risparmio sul conto corrente…

Una grande banca italiana è alle cronache in questi giorni per aver comunicato ai suoi clienti (11 milioni) sensibili aggravi di costo per chi tratterrà la sua liquidità sul conto corrente.

Non importa ricordare il nome della banca: se non hanno ancora preso la stessa decisione, altre lo faranno, probabilmente tutte. O forse lo hanno fatto senza comunicarlo ai clienti con una lettera ad hoc, oppure i media non lo hanno saputo. Il clamore può sembrare e forse essere eccessivo: quante volte negli ultimi anni banche grandi e piccole hanno lucrato – più o meno nel rispetto dei codicilli contrattuali – cifre molto piccole su grandi numeri di conti corrente?

I “conguagli di fine” anno sulle spese del conto sono stati e restano un classico, redditizio e in fondo elementare.

La tastiera dei costi/prezzi bancari è molto ampia e complessa: e in ogni caso cosa sono uno, due, o cinque euro all’anno a fronte delle perdite inflitte ai clienti sotto forma di perdite su prodotti di risparmio troppo rischiosi, di prestiti al consumo a tassi che diventano improvvisamente usurari, di derivati che sembravano la pietra filosofale del credito facile e sicuro e invece hanno strangolato imprese e pubbliche amministrazioni?

Si sia trattato dei bond subordinati venduti agli sportelli di Banca Etruria ai pensionati o delle azioni proprie fatte comprare dalle Popolari venete ai loro correntisti a debito e a prezzo gonfiato, della trasparenza è stata fatta strame. In fondo la banca di cui stiamo parlando l’ha messo nero su bianco in anticipo. E così facendo ha scosso l’albero in modo non del tutto inopportuno.

Il primo tema riguarda i risparmiatori, cui è stato ricordato che le banche non sanno più che farsene della loro liquidità.

Così come la stessa Repubblica italiana ha collocato suoi titoli di debito a tassi negativi, anche le banche – anche in Italia – non hanno più bisogno di pagare per raccogliere una liquidità che – da anni e ancora – è disponibile gratis ovunque: anzitutto presso le banche centrali.

Questo è un fatto: da anni le politiche di espansionismo monetario (Quantitative easing) “tassano” indirettamente i cittadini, negando redditività al deposito bancario o al suo impiego a breve termine.

Si può discutere – e si sta discutendo da tempo – sull’opportunità ed efficacia di queste politiche: che avrebbero dovuto stimolare la ripresa (negli Usa e nel Nord Europa abbastanza, in Italia poco), tenere in sicurezza le banche (in Italia poco) e rilanciare il credito alle imprese (in Italia pochissimo).

Ma la relazione causa-effetto è chiara: per quanto certifichi una situazione ormai quasi strutturale, sebbene in contraddizione con le esperienze e le teorie consolidate nell’economia finanziaria. (Non c’è contraddizione interna, d’altronde, in banche che non vogliono raccogliere liquidità ma nemmeno prestare soldi a imprese che in fondo non li chiedono: è il versante bancario della cosiddetta spirale deflazionistica, di una situazione di recessione prolungata ai limiti della depressione).

Un secondo tema, più di merito, riguarda il segnale che uno dei due campioni nazionali italiani lancia in varie direzioni: alle autorità creditizie non meno che alla Borsa. Il “business model” di una banca della tradizione europea è orami in crisi strutturale: il vecchio mestiere di intermediare risparmio in credito non genera più margini.

Chi vuole tenere la sua liquidità “al sicuro” in banca – il più antico “servizio bancario” – deve anzitutto mettersi nell’ordine di idee di pagare, al netto di tutti gli altri servizi ormai entrati nei “pacchetti” offerti ai depositanti.

In realtà – terzo spunto di riflessione – il sistema bancario sta sollecitando i suoi clienti a tornare a investire in prodotti di risparmio (fondi comuni, gestioni, polizze, ecc.). È su questi che le banche contano di produrre quei ricavi che al momento mancano nel business creditizio.

In fondo le cronache dicono che Wall Street ai massimi storici e, per stare vicino a casa, il Ftse-Mib di Piazza Affari non è troppo lontano dai massimi negli ultimi cinque anni.

Come dire: chi non ha investito sui mercati negli ultimi anni ha sbagliato, ha peccato di poca fiducia.

Ma è buon argomento per spingere i clienti a investire ora? Intanto dalla banca arriva una spintarella.

Un’ultima questione non è meno marginale.

Oggi è impossibile tenere la liquidità sotto il proverbiale materasso: tutte le più recenti normative anti-evasione fiscale e anti-riciclaggio combattono ai limiti del divieto l’uso del contante.

Chi non volesse tenere in banca anche solo qualche decina di migliaia di euro (e non volesse spostarli su investimenti rischiosi), in pratica non potrà prelevarli in contanti, anche se per esempio li volesse tenere in una cassetta di sicurezza a pagamento presso la stessa banca. Potrebbe teoricamente depositarli presso un’altra banca, ma ve ne saranno che resisteranno alla pressione all’aumento delle spese?

L’aumento dei costi di tenuta del conto si profila quindi come “obbligatorio”, anche se a deciderlo non è lo Stato, ma un complesso di aziende formalmente private (quasi tutte quotate in Borsa) e operanti in concorrenza sul mercato. Il fisco “imprigiona” i risparmi in banca e opera ulteriori prelievi (su “patrimoni”, non su “redditi”).

Sembra tutto un fake: i tassi negativi e i rincari obbligatori sul conto corrente; ma purtroppo non lo è.

E riepilogare perché siamo arrivati a questo punto – dall’estate 2007 a oggi è ormai troppo lungo. E se molti litigano ancora sulla versione dei fatti, molti i fatti li hanno già dimenticati.

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