Racconti

NELLA FINANZA PER RACCONTI

La supremazia dei racconti nella consulenza finanziaria

La consulenza finanziaria, come spiega Paolo Legrenzi (Venezia, 1942) è professore emerito di psicologia cognitiva presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia si basa su racconti più che su tabelle, su figure, su grafici e dati. Tutto deve essere trasformato in un racconto che possa esser narrato a un cliente.

La tabella (fnte Boloomber 2017 ) in cui si può osservare un confronto tra tre indici, uno europeo, uno americano e quello MSCI, relativo agli Emerging Markets va trasformata in un racconto per il cliente.

Un altro racconto può collegare la recente instabilità delle borse tedesca, europea, e statunitense alla politica nuova dei dazi inaugurata dalla Presidenza Usa. Si può narrare in modo coerente come il problema sia sentito in USA in concomitanza con l’indebolirsi del suo indice manifatturiero rispetto alla concorrenza europea e tedesca. Il 2016 è stato il punto di svolta e il Presidente Usa lo sta cavalcando.

Abbiamo visto in passato come un racconto può concernere l’immagine dei consulenti agli occhi dei clienti, dato che il cliente si farà di voi una «prima impressione». Altri racconti concernono i mercati, come nel caso dei due esempi iniziali. E tuttavia l’andamento dei mercati può essere sempre lo spunto per una stria più generale e omnicomprensiva.

Oggi i racconti vanno di moda rispetto ai modelli matematici di un tempo, come ricorda Paul Krugman in occasione del premio Nobel a Jean Tirole: in sostanza la scuola di Tirole ha reso possibile raccontare storie invece di dimostrare teoremi, e questo a sua volta rientrano nei confini della concorrenza perfetta («Il Sole24Ore», 26 ottobre 2014, p. 23).

Quale, di questi tempi, il racconto più credibile e contagioso per quanto concerne l’interpretazione di quel che succede sui mercati? Il racconto più spesso evocato (e temuto) nasce con una storia narrata la prima volta da Lawrence Summers, l’ex segretario del tesoro statunitense, presidente dell’università di Harvard. Come per tutte le storie che funzionano, Summers ha trovato un bel titolo: «stagnazione secolare». Questa storia si compone di due capitoli e di una conclusione. Il primo capitolo è «Global slow-down», e cioè rallentamento globale. Il secondo capitolo è «Deflation», cioè deflazione. La conclusione è: pessimismo. Secondo Shiller sono queste le paure contagiose, anche all’inizio del 2018. Non è, secondo Shiller, una teoria che abbia grandi basi accademiche o empiriche. Appartiene forse più allo sportello mentale delle «emozioni» che non a quello delle «spiegazioni razionali».

In questa chiave narrativa ed emotiva, si può forse alludere al rallentamento dei consumi, via via che si ottiene la prosperità (una vecchia idea di Keynes).

Inoltre, si possono ricordare altri due fattori: l’invecchiamento delle popolazioni, che frena la crescita, e la mancanza d’innovazioni tecnologiche radicali, dopo la rivoluzione dell’ICT.

Questi son altri due racconti che circolano sempre più spesso. E tuttavia il punto centrale della questione è un altro, e cioè la disponibilità cognitiva e, soprattutto, emotiva, nei confronti di una spiegazione semplice basata su una storia, e quindi immediatamente intuitiva.

Un meccanismo analogo sta dietro a un fenomeno molto diverso: e cioè i tempi brevi sufficienti per formarsi un’impressione di un’altra persona, appena la abbiamo incontrata. E’ come se volessimo costruirci una “storia immediata” per poter “inquadrare” chi abbiamo davanti.

Che cosa succede quando incontriamo per la prima volta una persona che potrebbe diventare nostro cliente? Come possiamo farcene un’idea? Dobbiamo fidarci della prima impressione? Molte volte mi sono state fatte queste domande, anche se questo non è uno scenario che capita soltanto ai consulenti a cui sono stati affidati i risparmi. Tant’è vero che la situazione è stata descritta anche dai narratori, prima che gli psicologi studiassero sistematicamente il problema.

Ecco la scrittrice canadese Alice Munro: Mi ero detta, Chi è quest’uomo? Ha un’aria di famiglia. Un uomo che si muove con agilità, come se non avesse il minimo problema a calarsi in un pozzo e a risalirne. Capelli a spazzola, brizzolati, occhi chiari, infossati. Viso magro, espressione austera, ma cordiale. Un’abituale riservatezza, non sgradevole [Munro 2003, 62].

Quante volte nei romanzi troviamo situazioni di questo tipo: una persona ne incontra un’altra e si forma subito un’impressione, come quando la protagonista del racconto di Alice Munro riconosce un amico d’infanzia, dopo averlo scambiato per suo padre. Altre volte questo riconoscimento è impossibile, come nel recente film Her (Lei) di Spike Jonze (2013, premio Oscar per la sceneggiatura), dove il protagonista si innamora di una Lei immaginata grazie a un sistema operativo che parla attraverso il suo telefono, o nel classico Il cavaliere inesistente di Italo Calvino (1959). In questi casi non è possibile farsi un’impressione immediata e completa dell’interlocutore, semplicemente perché è senza corpo. Ha solo una voce, il resto non c’è, e di questa mancanza poi, nel corso della storia, si vedono le conseguenze. Ciò non toglie che il cavaliere inesistente sia il migliore ufficiale, tra le truppe di Carlo Magno, e che di Her, premurevole assistente, ci si possa innamorare.

Quanto più una persona, soprattutto se è sola, desidera avere contatti sociali, tanto più attribuisce un’anima a entità che ne sono prive [Legrenzi e Umiltà, 2014]. All’estremo opposto, nei casi in cui vediamo solo il corpo, ma non il viso di una persona appena incontrata, possiamo comunque farci un’idea della persona, per esempio dal suo modo di camminare. Ecco un passo dello scrittore inglese Le Carré [2001, 361]: All’improvviso Bradshaw prese a camminare verso di me.

O a incedere? O ad arrancare? C’è oggi un’andatura inglese, propria degli uomini di potere, che è un insieme di più cose. Una di queste è la sicurezza di sé, un’altra una pigra giovialità.

Ma contiene anche minaccia e impazienza e una tranquilla arroganza che si esprime nell’allargare i gomiti come le che le di un granchio senza cedere il passo a nessuno, nel curvare le spalle come i giudici e nella gioiosa elasticità delle ginocchia.

Quello che accomuna i casi del cavaliere inesistente, dell’assistente Her e del potente commerciante d’armi  titolo di un classico libro di Jerome Bruner [1973].

A differenza degli esempi sopra citati, per solito, nella vita quotidiana, le persone che incontriamo hanno un viso, ed è stupefacente quanto rapidamente ce ne facciamo un’impressione, anche se non le abbiamo mai incontrate prima.

Questa situazione è un esempio paradigmatico di un sapere sociale implicito, che cela molte operazioni complesse, così naturali e spontanee da non porre apparentemente alcun problema. Se però ci s’interroga su di esse, nascono questioni interessanti. Solo recentemente la ricerca ha iniziato a dare risposte. Queste risposte toccano da vicino i problemi delle relazioni tra i consulenti e i nuovi clienti. In effetti, è soprattutto all’inizio di una relazione che un consulente non sa ancora bene di chi è veramente consulente. Deve fare il bene del portafoglio che gli è stato affidato, o deve anche accontentare il proprietario, o i proprietari, dei risparmi, o, forse ancora, un miscuglio delle due cose? A prima vista sembrerebbe che le due esigenze dovrebbero coincidere. Ma nella realtà della vita, come abbiamo detto più volte, non sempre le cose stanno così, perché i clienti, soprattutto se «rigidi», si affidano un consulente, ma non sempre si «fidano», e continuano ad avere le loro idee e preferenze.

Come possiamo affrontare il problema del primo incontro tra un cliente e un consulente? È forse una fase delicata? Sarà in quei pochi istanti che il cliente deciderà se affidare i suoi risparmi o se, almeno, continuare un rapporto che sta per nascere? O, invece, deciderà di troncare il rapporto sul nascere? Nessuno sa esattamente quanti risparmiatori sono stati delusi dal primo incontro. Le statistiche parlano soltanto degli effetti degli incontri andati a buon fine.

Partiamo da una situazione frequente nella vita quotidiana, sia nel tempo libero sia sul lavoro: incontrate per la prima volta persona. Potete già avere delle informazioni su quella persona: che cosa fa, dove abita, con chi vive, amici, conoscenti, e così via. Oppure, se non le avete, potete immaginarne alcune in base all’ambiente e all’occasione sociale in cui l’avete incontrata.

Altre volte, infine, sapete soltanto quel che vedete la prima volta, in quel preciso momento. Prestate attenzione per pochi attimi: è una persona tra la folla, di cui poco v’importa, giusto il tempo per un’impressione fuggevole, come capita con tanti altri eventi che si susseguono nel corso di una giornata.

Quanto più la prospettiva futura è a lungo termine, tanto più rilevante diventa un’adeguata categorizzazione della persona che si ha davanti. La prima impressione corrisponde a un indizio che potrà innescare e incanalare i rapporti futuri, che poi si nutriranno di una conoscenza più stretta e approfondita.

Poste così le cose, si presenta il primo dilemma interessante affrontato dagli psicologi. A buon senso, intuitivamente, sarebbe plausibile supporre che quanto più una relazione si presenta come potenzialmente rilevante, tanto più si sia cauti nel fidarsi della prima impressione. Ebbene, le ricerche dicono che le cose non stanno proprio così. Sembrerebbe che le persone siano comunque precipitose nel formulare giudizi: vogliono avere una storia!

Ci si è anche domandati se le persone si rendano conto di come funzionano questi meccanismi. In genere, le persone inesperte non ne sono consapevoli, e pensano che, in un colloquio di mezz’ora, tutte le diverse fasi dell’incontro siano rilevanti. Gli intervistatori esperti imparano invece a frazionare il colloquio in più parti. Per esempio, un bravo consulente finanziario si fa una scaletta dei punti che vuole toccare nel primo incontro, lascia parlare il potenziale cliente, e fa domande solo per completare il quadro in base alla scaletta che ha predisposto. Comunque, il buon consulente non è precipitoso, lascia parlare il futuro potenziale cliente: il suo obiettivo cruciale è avere la possibilità di un secondo incontro.

 

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